La Tragedia dell'Identità
George Herbert Mead è una figura centrale nella sociologia e nella psicologia sociale. Per chi non lo conoscesse è colui che ha proposto la teoria dell'”altro Generalizzato”. Una sorta di iperbole del senso comune. Per una esaustiva comprensione di quello che provo a dire vale la pena soffermarsi qualche riga su questo concetto di “Altro Generalizzato”. Giochiamo.
Per Mead, l’identità o il “sé” non è qualcosa di innato o fisso, ma piuttosto un prodotto delle interazioni sociali. La nostra identità si sviluppa man mano che interagiamo con gli altri. In altre parole, diventiamo consapevoli di noi stessi attraverso le nostre relazioni con gli altri.
Mead identifica due fasi fondamentali nello sviluppo del sé: il gioco e il gioco simbolico. Nel gioco, i bambini imitano le azioni degli altri, permettendo loro di assumere ruoli diversi e di vedere il mondo da diverse prospettive. Nel gioco simbolico, i bambini iniziano a partecipare a giochi organizzati dove ogni partecipante ha un ruolo specifico (ad esempio, giocare a “casa” o “scuola”). Questo li aiuta a comprendere come i loro comportamenti influenzano gli altri e viceversa.
Mentre il gioco e il gioco simbolico sono basati sull’assunzione di ruoli specifici, l’altro generalizzato rappresenta una fase successiva nello sviluppo del sé. L’“altro generalizzato” si riferisce alla capacità di un individuo di avere una nozione delle aspettative e delle norme della società nel suo complesso. In altre parole, è una consapevolezza delle attitudini e delle aspettative della comunità in generale. Quando un individuo considera come sarebbe giudicato dalle norme sociali generali, sta considerando l’altro generalizzato.
Mead divide ulteriormente il sé in due componenti: l'”Io” e il “Me”. Il “Me” rappresenta le aspettative e le norme della società – essenzialmente, è ciò che abbiamo appreso dall’altro generalizzato. L'”Io”, d’altra parte, rappresenta la risposta individuale e spontanea dell’individuo a queste norme sociali. In ogni momento, l’individuo sta negoziando tra l'”Io” e il “Me”, tra le proprie risposte personali e le aspettative della società.
La comunicazione simbolica, in particolare il linguaggio, gioca un ruolo cruciale nello sviluppo del sé. Attraverso il linguaggio, gli individui possono condividere significati, esprimere aspettative e negoziare identità.
In sitesi Mead propone che il nostro senso del sé si sviluppi attraverso le interazioni sociali. Man mano che interagiamo con gli altri e con la società nel suo complesso, formiamo un’immagine di come siamo visti e modelliamo il nostro comportamento di conseguenza. L’altro generalizzato rappresenta la somma delle aspettative e delle norme sociali che influenzano questo processo di formazione del sé.
La comunicazione simbolica gioca un ruolo fondamentale nella tragedia secondo Aristotele, specialmente quando si analizza la sua opera “Poetica”. La tragedia, per Aristotele, è una forma d’arte che imita azioni significative attraverso una serie di simboli, principalmente il linguaggio, ma anche attraverso gesti, costumi, scenografie e musica.
Il linguaggio, ovviamente, è uno degli strumenti più potenti nella tragedia. I dialoghi, i monologhi e le liriche sono ricchi di simbolismo. Attraverso le parole, gli autori tragici esplorano temi profondi come la moralità, il destino, gli dèi, l’onore e la vergogna. Ogni parola scelta, ogni frase costruita, serve a trasmettere significati multipli e profondi.
Uno degli obiettivi principali della tragedia, secondo Aristotele, è la catarsi, una purificazione o purga delle emozioni di paura e di compassione. Questo effetto emotivo è raggiunto attraverso una serie di simboli e immagini che risuonano con l’esperienza umana, portando il pubblico a un’intensa risposta emotiva.
Ora corriamo indietro nel tempo e sediamoci di fianco ad Aristotele sui gradoni di marmo di un teatro greco. Inizia il gioco del sè, ha luogo la tragedia.
Nella tragedia greca, gli attori indossavano maschere. Queste maschere non solo rappresentavano i diversi personaggi, ma erano anche simboli dei ruoli e delle identità che quei personaggi incarnavano. Un re indossava la maschera di un re, una donna quella di una donna, e così via. Queste maschere aiutavano a trasmettere visivamente l’essenza e la natura del personaggio al pubblico.
Oltre al linguaggio, le azioni compiute dai personaggi sulla scena erano cariche di significato simbolico. Un sacrificio, un bacio, una lotta – ogni azione aveva significati profondi che andavano oltre la mera rappresentazione fisica.
La struttura stessa della tragedia, con il suo ritmo di esposizione, climax e risoluzione, serviva a comunicare il movimento inesorabile del destino e le tensioni della vita umana. La cadenza delle scene, l’alternanza tra dialoghi intensi e cori lirici, tutto contribuiva a creare un’esperienza simbolica per il pubblico.
La tragedia, secondo Aristotele, non era solo una rappresentazione di eventi ma un intricato intreccio di simboli che, quando interpretati correttamente, rivelavano verità profonde sulla condizione umana.
All’inizio della nostra esistenza, ci troviamo a confrontarci con una domanda fondamentale: “Chi sono io?”. Questa domanda, semplice nella sua formulazione ma profondamente complessa nella sua essenza, ha guidato gran parte del discorso filosofico e psicologico lungo i secoli.
Aristotele, con la sua profonda riflessione sulla tragedia, ci ha offerto uno spaccato della natura umana, illuminando la tensione tra desideri personali e forze esterne apparentemente ineluttabili. Prendiamo, ad esempio, la storia di Edipo. La sua tragica lotta non era tanto con le circostanze esterne, ma con la sua stessa natura e le decisioni prese nel tentativo di sfuggire a un destino predetto. In lui, vediamo l’eterna battaglia dell’individuo contro forze che sembrano oltre il suo controllo. Tuttavia, la tragedia di Edipo non risiede solo nelle sue azioni, ma nella dolorosa realizzazione e accettazione del suo destino. Questa accettazione, e la catarsi che ne segue, rappresenta una profonda introspezione e comprensione del ‘sé’.
Mentre Aristotele ci ha mostrato come l’individuo possa essere plasmato da forze esterne, Mead ci ha portato in un territorio diverso, esplorando come l’identità sia modellata dalla nostra interazione con la società. Ogni volta che raccontiamo una storia su noi stessi, stiamo in realtà negoziando tra la nostra visione interna e le aspettative esterne. Immaginiamo, ad esempio, un giovane artista cresciuto in una famiglia di medici. Mentre la sua passione lo spinge verso la pittura e la scultura, le aspettative esterne potrebbero richiedergli di seguire le orme della famiglia. Ogni quadro che dipinge, ogni scultura che crea, diventa una dichiarazione del suo ‘sé’, un atto di resistenza contro le percezioni esterne.
La teoria della mente di Mead ci porta ancora più in profondità in questo dialogo interiore ed esteriore. Quando pensiamo a come gli altri ci vedono, stiamo in realtà proiettando le nostre credenze, paure e aspettative su di loro. Questa proiezione diventa una parte fondamentale della nostra identità. Ad esempio, un insegnante potrebbe vedere se stesso come un mentore e un guida, ma se percepisce che i suoi studenti lo vedono come noioso o severo, questa percezione potrebbe influenzare profondamente il modo in cui si vede e si comporta.
Questo continuo gioco di tensioni – tra forze esterne e desideri interni, tra percezioni proprie e altrui – crea un mosaico dell’identità che è in continua evoluzione. Mentre ci muoviamo attraverso la vita, raccogliendo esperienze e interagendo con il mondo che ci circonda, la nostra comprensione del ‘sé’ si approfondisce e si arricchisce.
Ma in realtà la domanda a cui dobbiamo rispondere è se siamo attori o spettatori della tragedia della nostra vita. Forse non siamo noi a guardare lo spettacolo.