Ritorno a Socrate
Indubbiamente il ruolo dell’insegnante ha subito una profonda trasformazione dall’antichità ad oggi. I nostri tempi ci hanno proiettato attraverso rivoluzioni del sapere e dell’informazione senza precedenti e la vera domanda che è necessario porsi è come prepararsi, come progettare un’istruzione che prepari il mondo a cambiamenti non prevedibili. Mia figlia Beatrice, che oggi ha 8 anni, nel 2040 sarà una venticinquenne iscritta forse in qualche istituto accademico. Già oggi mi pongo di fronte alla questione di quale dovrà essere la sua preparazione e quali competenze dovrà avere per affrontare le sfide di un mondo in un processo di evoluzione schizofrenico, inondata da una quantità di sapere e di informazioni disponibili attraverso fonti che tra vent’anni non sappiamo nemmeno immaginare.
Probabilmente verremo dotati di chip sottocutanei in grado di istillare nozioni predeterminate in relazione al ruolo che dovremo (o che sarà necessario) ricoprire nella comunità. Non vuole questa essere una visione distopica ma uno sguardo attonito ad un futuro che sappiamo sempre meno prevedere e su cui è doveroso fare una riflessione rispetto al ruolo dell’insegnante. Quale sarà dunque il processo formativo che attraverserà i prossimi anni? Quali saperi dovranno essere trasmessi? Quale ragion d’essere sarà nello spirito di chi insegna se siamo sempre più svuotati (o meglio inondati) di contenuti da fonti di discutibile attendibilità? Dovremo forse essere plastici e discernere le fonti e le forme più che i saperi? Nell’antichità la necessità di apprendere conoscenze era una via per giungere alla virtù.
La paideia rappresentava il riferimento educativo dove la relazione fra maestro e allievo era molto più che asimmetrica. L’accento era posto sulla trasmissione di saperi obiettivamente non disponibili ed alla portata di tutti. La didattica aveva una precisa funzione trasmissiva con un inizio ed una fine. non so – imparo – so La funzione educativa, oltre che avere una finalità trasmissiva in sé, rappresentava anche una buona pratica per raggiungere quella virtù che instradava l’individuo verso una miglior condizione sociale. Qualcuno però, già in antichità, proponeva un metodo di ricerca e non di trasmissione di informazioni.
Una ricerca costante. Una ricorsiva rimessa in di discussione attraverso il dialogo di una verità che non era mai assoluta. Credo proprio sia stato Socrate il vero precursore degli attuali modelli educativi simmetrici: nessuno è depositario di verità, tanto meno l’insegnante, il maestro che va sempre ricercando e non trova pace. È attraverso il dialogo, il confronto, la rimodulazione continua e l’interazione che progredisce un metodo non a discapito della capitalizzazione dei saperi ma in una prospettiva che deve rendere consapevolezza dell’imprevedibilità del futuro e di quello che sarà necessario per Beatrice affinché possa serenamente collocarsi nella dimensione sociale. L’emersione dei leader spirituali ha sempre germogliato nei momenti della storia che hanno delineato profonde crisi spirituali. Lo stesso cristianesimo ha spostato il baricentro della ricerca verso un maestro interiore. Verso una virtù che non era più da trasmettere ma da ricercare. Profonde crisi spirituali che hanno preceduto crisi economiche e politiche.
Oggi le crisi sono situate, distribuite e incarnate, parallelamente alla visione distribuita ed incarnata della conoscenza. Una visione che ha una demarcato nettamente il metodo formativo ed il ruolo del docente. Quando nelle teorie classiche l’interoperabilità fra scienza e psicologia focalizzava l’attenzione della comunità su metodi sperimentali e sempre più orientati allo studio della mente, emergevano i nazionalismi e l’omologazione dei discenti era tanto radicale quanto la divulgazione del mos maiorum ai tempi della Roma antica. Il ruolo del docente nel comportamentismo prevedeva sequenze dal semplice al complesso attraverso stimoli e risposte, premi e penalità. Un ruolo centrale, ineludibile, dove la trasmissione delle informazioni e la buona riuscita della trasmissione era il fine dell’azione formativa.
È lo smartphone il nostro Pavlov. Non è forse che la FOMO (Fear Of Missing Out) corrisponde alla produzione salivare dell’animale? Quell’animale che premeva un pulsante rosso perché era educato a quella reazione attraverso uno stimolo. Oggi premiamo su delle icone al posto di pulsanti rossi. La paura di “rimanere fuori” è uno stimolo molto più feroce della fame stessa. Una fame sociale e non biologica. Il modello cognitivista prende poi la strada dello studio della mente e il baricentro si sposta sull’organismo (Stimolo – Organismo – Risposta) rendendo giustizia a quelle capacità di elaborazione che ci distinguono dal mondo dei pulsanti rossi. La stimolazione percettiva passa poi ad una elaborazione e traduzione in simboli che entrano nei cassetti della memoria e si elaborano quelle risposte che non sono più solo bisogni primordiali. L’insegnante deve calibrare le informazioni affinché non siano troppe o troppo poche
Una complessità crescente genera quella dimensione “ascensionale” della conoscenza che porta l’individuo alla realizzazione. La medesima realizzazione dell’antica virtù ma oggi scientemente calibrata con dosi massicce di input. Viene introdotto ed affrontato il problema delle rappresentazioni come “concetti” che formano le unità di memoria e l’organizzazione è perlopiù linguistica. Ma se l’apprendimento è comprensione, il ruolo dell’insegnante è, ancora una volta, quello di “distributore di conoscenza”. Programmi didattici basati sull’accumulo di nozioni. In passato questa metodologia aveva un senso, in quanto le informazioni erano scarse, e anche quelle informazioni che lentamente riuscivano a filtrare nella società venivano di continuo bloccate dalla censura. Oggi abbiamo una censura inversa in quanto l’inondazione di informazione produce la compressione delle bolle di pensiero che impediscono di progredire o meglio, fa progredire in una direzione tracciata da altri. In una tale situazione l’ultima cosa che dovrebbe fare un insegnante è dare ai discenti ulteriori informazioni! Questi hanno bisogno di strumenti critici per interpretare le informazioni, per distinguere ciò che è importante da ciò che è irrilevante, e soprattutto per poter inquadrare tutte le informazioni in un più ampio scenario sociale.
Ma gli insegnanti si sono impegnati nell’inserire i dati nella testa dei loro allievi spingendoli, al tempo stesso, verso il pensiero critico. Per timore dell’autoritarismo, le scuole di estrazione liberale hanno evitato il racconto storico consolidato, ritenendo che un’elevata dose di nozioni e una parallela libertà di pensiero avrebbero indotto gli studenti a farsi un’idea del mondo. Ma l’informazione è già bio-disponibile; quello che manca realmente è una capacità critica di adattamento al contesto senza che questa diventi omologazione al contesto stesso. Il docente attuale condizionerà il futuro della vita perché la società discente potrà operare delle scelte sulla base di quanto sarà in grado di valutare e non sulla base della quantità di informazioni di cui è in possesso. Dalle teorie meta-riflessive in poi, emerge in effetti la necessità di inquadrare il ruolo dell’insegnante come quello di un mediatore, di un meitre che predispone la sala per l’apprendimento e non fornisce menù, ma apre la cucina e invita gli ospiti a cucinare le portate del sapere. Un sapere adattivo, delle portate che assumono profumi e sapori differenti a seconda delle spezie che ciascuno dosa e predilige. La valutazione non è la bontà del piatto ma la cooperazione nella preparazione dello stesso.
L’aspetto dialogico assume sempre più rilevanza così come parallelamente le neuroscienze forniscono riscontri sempre più precisi sulle capacità di apprendimento. Il focus non è più l’informazione ma il contesto, la cultura. Il focus è, parimenti, lo studio approfondito dei processi cognitivi e della correlazione fra mente e ambiente.
Il docente oggi deve costruire impalcature e sorreggere il discente in un rapporto continuo di co-costruzione del sapere. Deve intervenire su richiesta e rimettersi costantemente in discussione sino ad arrivare alla rimodulazione degli ambienti di apprendimento attraverso una progettazione che vede partecipi gli stessi allievi. La più importante di queste impalcature sarà la capacità di gestire il cambiamento, di imparare nuove cose e di saper contribuire attivamente al processo educativo sociale. Sostengo questo in quanto, lavorando nell’ambito delle tecnologie basate su intelligenza artificiale, ho avuto modo di vedere uno stralcio dell’iperbole che guiderà lo sviluppo dei prossimi anni. Quello che era un chatbot solo 5 anni fa oggi è un automa in grado di scrivere una riflessione come questa in modo autonomo sulla base di poche informazioni in input e senza che vi sia un rinforzo attivo se non un like o 5 stelline in una recensione. Siamo già totalmente assorbiti in un mondo di algoritmi che controllano e guidano ogni singolo aspetto dell’esistenza. Quello di cui non abbiamo sicuramente bisogno è un insegnante-algoritmo che predetermini il nostro comportamento e la nostra conoscenza. Abbiamo bisogno di un insegnante che sia un nuovo Socrate. “Le anime, per poter essere gravide, devono prima accoppiarsi con altre anime.” Ed è proprio l’arte del partorire che innesca il percorso di ricerca della verità dove Socrate si muove in sordina e il discente non sa di esserlo. In realtà Socrate stesso impara dal brusio che aveva generato esagerando nello sfidare i giudici con la proposta di essere mantenuto a spese della collettività nel Pritaneo.
A questo punto mi pongo di fronte alla tesi della maieutica nell’interpretare il senso della relazione fra maestro e discente e mi chiedo “quanto è importante la fattezza del nascituro rispetto alla gravidanza?” e “quanto la gravidanza avvicina alla felicità (aristotelica)?”, fine ultimo dell’uomo.
Ed è proprio la gravidanza declinata come percorso tra il concepimento e la nascita che mi porta a identificare un contesto non solo relegato a un’azione funzionale di trasmissione della conoscenza, ma che coinvolge l’intero essere degli insegnanti e dei discenti nei rispettivi ruoli che si scambiano di continuo in un processo circolare. Per dare un senso finale a questa riflessione vorrei che si leggesse trasversalmente il ruolo dell’insegnante, al di fuori della sua funzione e del suo fine comprendendone la situazione (inteso come essere situato) in un contesto sociale incerto e apparentemente regolato da variabili non predefinite. Non credo si possa concepire un’attività didattica che non coinvolga gli insegnanti e, a maggior ragione, non è concepibile una tale attività che non coinvolga i discenti. Penso inoltre che l’allontanamento dalle logiche asimmetriche classiche di concezione del ruolo, per traguardare ai metodi contestual-cultural-costruttivisti ed atterrare sui metodi sperimentali, abbiano ragionevole corrispondenza ad un’evoluzione del pensiero da cognitivo a relazionale. Di fatto l’ambiente educativo è la società stessa che predispone situazioni più o meno adeguate allo sviluppo ma all’interno delle quali viene spesso focalizzato l’atto dell’insegnare più che il ruolo di chi insegna, che vive e agisce nella stessa società di chi apprende. Le correnti postcognitiviste si concentrano sul ruolo dei discenti, rovesciando l’asimmetria dei modelli classici ma non potendo ignorare il ruolo di guida degli insegnanti. È molto difficile, anzi quasi impossibile, che un allievo impari e cresca senza l’aiuto di una guida. Un discente ha bisogno di aiuto quando incontra difficoltà nel comprendere correttamente, nel pensare logicamente e nell’agire socialmente. Che la conoscenza sia distribuita, incorporata o posizionata, non si può eludere il ruolo dell’insegnante. In egual misura non si può eludere il ruolo del discente in una relazione trasmissiva che altrimenti sarebbe riflessiva.
Se d’altro canto intendiamo l’ambiente come meta-struttura didattica sotto la quale i ruoli di docente e discente si scambiano costantemente e se non cristallizziamo il ruolo del docente sotto la veste della funzione cui adempie, ovvero l’insegnamento, quello che dobbiamo realmente investigare è la dimensione formativa sociale in cui si colloca la persona che al tempo stesso è docente-discente.
Il pensiero dell’individuo nelle tesi organismiche ed il recupero dell’individualità nelle tesi adattive riposiziona l’asse in maniera asimmetrica perché libera nuovamente il docente della responsabilità formativa in senso stretto e rende attivo il ruolo del discente nella distruzione e ricostruzione degli ambienti formativi. Nonostante sia fondante la tesi costruttivista di Piaget da cui deriva il fatto che la conoscenza sia un prodotto sociale e che nasce quindi attraverso l’interazione fra attori e strumenti, a mio giudizio la chiave di lettura, in questi modelli, sta ancora nell’azione dell’insegnamento e non della persona-docente calata nel contesto. Infatti, la promozione di strutture di conoscenza atte ad affrontare problematiche complesse proposte dalla società è ancora un’azione (che nasce dall’intenzione di trasmettere queste strutture) e si concretizza in un fine (quando le strutture sono trasmesse). Nella biologia evolutiva, a prescindere che si parli di innatismo o epigenesi, l’effetto del comportamento appreso sull’evoluzione sembra allontanare ancora più di Piaget la visione circolare dell’apprendimento collocandola su uno spettro di interpretazione esclusivamente evoluzionista. Ma se gli individui meglio adattati all’ambiente tramite assimilazione e accomodamento sopravvivono più a lungo e riproducendosi danno luogo a una discendenza in cui è conservata la loro modalità di adattamento individuale, non è forse che l’origine delle strutture sociali stia proprio alla base di un accomodamento progressivo e genetico dell’uomo?